Oltre sessanta morti in attacchi e imboscate nelle regioni contese tra nord e sud che restano un'incognita preoccupante nei rapporti tra i due Paesi
Un passo avanti e uno indietro. Mentre il Sudan entra nel quarto giorno di un referendum decisivo che pure si sta svolgendo pacificamente, il sangue torna a scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese.
Negli ultimi sei giorni si sono registrate imboscate e scontri tra gruppi armati che hanno fatto oltre 60 morti: gli episodi si sono verificati nello stato di Unity, regione petrolifera considerata parte del nuovo Sud Sudan indipendente, nel Kordofan meridionale e ad Abiyei, aree invece sulle quali Khartoum e Juba non hanno ancora trovato un accordo e difficilmente riusciranno a intendersi in un futuro prossimo. Tra venerdì e sabato, quando fervevano gli ultimi preparativi per l'inizio delle operazioni di voto, è partito l'attacco dei miliziani agli ordini di Gatluak Gai, un ex comandante ribelle del Sudan People's Liberation Army (Spla), l'esercito indipendentista che adesso costituirà la colonna portante delle forze armate del Sud Sudan. A Juba sospettano che Gai e i suoi siano incoraggiati e finanziati da Khartoum con l'obiettivo di far deragliare il referendum. Secondo quanto riferito dal generale dell'Spla Gier Chuang Aluong, il ministro degli Interni del Sud Sudan, le milizie hanno attaccato una base dell'esercito regolare, uccidendo sei soldati. Nel contrattacco, i militari avrebbero ucciso oltre 30 miliziani, arrestandone 32, ai quali adesso verrà chiesto chi e perché ha deciso l'assalto e le imboscate.
L'area più calda resta quella di Abiyei, la regione a cavallo della frontiera che fino a pochi anni fa produceva da sola il 25 per cento della ricchezza petrolifera del Sudan. Qui si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se il territorio è parte del nord o del sud del Sudan. La delicatezza della situazione e l'importanza degli interessi in gioco ha spinto le due parti a rimandarlo a data da destinarsi ma le ferite restano aperte. Domenica hanno cominciato a circolare notizie di un attacco a poliziotti sudsudanesi con un bilancio di 20 morti: le voci sono state confermate dal colonnello Philip Aguer, un portavoce dell'esercito del Sud Sudan. Secondo la ricostruzione dell'ufficiale, ad attaccate sarebbero state truppe delle Forze di Difesa Popolare affiancate da milizie Messereya, una popolazione nomade araba che nella seconda guerra civile sudanese si era schierata con Khartoum. Le stesse milizie sono responsabili dell'attacco ad uno dei pulmini organizzati per riportare gli elettori emigrati nel nord a votare nei loro villaggi: il bilancio è di 10 morti e 18 feriti. Negli ultimi giorni si sono registrati una trentina di episodi analoghi: l'ultimo al confine tra Bahr el Gazel e il Kordofan meridionale, una regione contesa come Abiyei e divisa tra una popolazione cristiana, i Ngok Dinka, che vive prevalentemente di agricoltura, e i Messereya, pastori nomadi che si spingono a sud con il proprio gregge nei periodi di siccità: gli scontri, sempre frequenti, tra i due gruppi per il possesso della terra sono diventati politici, con Juba che si rifiuta di riconoscere loro la cittadinanza (e quindi il diritto di voto) e Khartoum che invece vuole farli votare, sapendo che si opporrebbero alla secessione del sud.
Che però ormai è un dato acquisito, anche perché l'affluenza ha superato il 60 per cento, la soglia al di sotto della quale sarebbe stato dichiarato nullo. Nel sud, non ci si chiede più "come va?" ma "hai votato ?", segno che la popolazione sente tutta l'importanza di un momento percepito come storico. Tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare. Migliaia di persone sono in arrivo anche da Uganda e Kenya, dove pure l'International Organization for Migration delle Nazioni Unite aveva predisposto seggi elettorali per la diaspora, che in parte non si è fidata dell'Onu, temendo che gli osservatori avrebbero potuto essere infiltrati da agenti sudanesi. L'indipendenza del sud è alle porte: i risultati definitivi verranno annunciati il 14 febbraio. Resta la questione della frontiera: una frontiera etnica ma anche religiosa, tra un nord musulmano e un sud cristiano animista, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponga alla secessione. A sud si festeggia già ma con un po' di amaro in bocca: mancano ancora alcune terre "irredente": Abiyei, il Kordofan meridionale e il Nilo Blu. Non lo faceva notare un pinco pallino qualsiasi ma Mabior de Garang, il figlio dell'eroe della lotta indipendentista del Sud Sudan, John Garang de Mabior, dando voce al sentimento di molti. La questione andrà affrontata e trovare una soluzione non sarà facile. Intanto, nelle terre contese il sangue è già tornato a scorrere.
Un passo avanti e uno indietro. Mentre il Sudan entra nel quarto giorno di un referendum decisivo che pure si sta svolgendo pacificamente, il sangue torna a scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese.
Negli ultimi sei giorni si sono registrate imboscate e scontri tra gruppi armati che hanno fatto oltre 60 morti: gli episodi si sono verificati nello stato di Unity, regione petrolifera considerata parte del nuovo Sud Sudan indipendente, nel Kordofan meridionale e ad Abiyei, aree invece sulle quali Khartoum e Juba non hanno ancora trovato un accordo e difficilmente riusciranno a intendersi in un futuro prossimo. Tra venerdì e sabato, quando fervevano gli ultimi preparativi per l'inizio delle operazioni di voto, è partito l'attacco dei miliziani agli ordini di Gatluak Gai, un ex comandante ribelle del Sudan People's Liberation Army (Spla), l'esercito indipendentista che adesso costituirà la colonna portante delle forze armate del Sud Sudan. A Juba sospettano che Gai e i suoi siano incoraggiati e finanziati da Khartoum con l'obiettivo di far deragliare il referendum. Secondo quanto riferito dal generale dell'Spla Gier Chuang Aluong, il ministro degli Interni del Sud Sudan, le milizie hanno attaccato una base dell'esercito regolare, uccidendo sei soldati. Nel contrattacco, i militari avrebbero ucciso oltre 30 miliziani, arrestandone 32, ai quali adesso verrà chiesto chi e perché ha deciso l'assalto e le imboscate.
L'area più calda resta quella di Abiyei, la regione a cavallo della frontiera che fino a pochi anni fa produceva da sola il 25 per cento della ricchezza petrolifera del Sudan. Qui si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se il territorio è parte del nord o del sud del Sudan. La delicatezza della situazione e l'importanza degli interessi in gioco ha spinto le due parti a rimandarlo a data da destinarsi ma le ferite restano aperte. Domenica hanno cominciato a circolare notizie di un attacco a poliziotti sudsudanesi con un bilancio di 20 morti: le voci sono state confermate dal colonnello Philip Aguer, un portavoce dell'esercito del Sud Sudan. Secondo la ricostruzione dell'ufficiale, ad attaccate sarebbero state truppe delle Forze di Difesa Popolare affiancate da milizie Messereya, una popolazione nomade araba che nella seconda guerra civile sudanese si era schierata con Khartoum. Le stesse milizie sono responsabili dell'attacco ad uno dei pulmini organizzati per riportare gli elettori emigrati nel nord a votare nei loro villaggi: il bilancio è di 10 morti e 18 feriti. Negli ultimi giorni si sono registrati una trentina di episodi analoghi: l'ultimo al confine tra Bahr el Gazel e il Kordofan meridionale, una regione contesa come Abiyei e divisa tra una popolazione cristiana, i Ngok Dinka, che vive prevalentemente di agricoltura, e i Messereya, pastori nomadi che si spingono a sud con il proprio gregge nei periodi di siccità: gli scontri, sempre frequenti, tra i due gruppi per il possesso della terra sono diventati politici, con Juba che si rifiuta di riconoscere loro la cittadinanza (e quindi il diritto di voto) e Khartoum che invece vuole farli votare, sapendo che si opporrebbero alla secessione del sud.
Che però ormai è un dato acquisito, anche perché l'affluenza ha superato il 60 per cento, la soglia al di sotto della quale sarebbe stato dichiarato nullo. Nel sud, non ci si chiede più "come va?" ma "hai votato ?", segno che la popolazione sente tutta l'importanza di un momento percepito come storico. Tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare. Migliaia di persone sono in arrivo anche da Uganda e Kenya, dove pure l'International Organization for Migration delle Nazioni Unite aveva predisposto seggi elettorali per la diaspora, che in parte non si è fidata dell'Onu, temendo che gli osservatori avrebbero potuto essere infiltrati da agenti sudanesi. L'indipendenza del sud è alle porte: i risultati definitivi verranno annunciati il 14 febbraio. Resta la questione della frontiera: una frontiera etnica ma anche religiosa, tra un nord musulmano e un sud cristiano animista, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponga alla secessione. A sud si festeggia già ma con un po' di amaro in bocca: mancano ancora alcune terre "irredente": Abiyei, il Kordofan meridionale e il Nilo Blu. Non lo faceva notare un pinco pallino qualsiasi ma Mabior de Garang, il figlio dell'eroe della lotta indipendentista del Sud Sudan, John Garang de Mabior, dando voce al sentimento di molti. La questione andrà affrontata e trovare una soluzione non sarà facile. Intanto, nelle terre contese il sangue è già tornato a scorrere.
Nessun commento:
Posta un commento