Dall’11 settembre al fallito attentato di Detroit, la storia in cinque atti di un conflitto sanguinoso. Che oggi ha nuovi scenari ma sempre le stesse vittime: le persone comuni.
Siamo ormai all’ottavo anno di un conflitto estenuante, più lungo della prima e della seconda guerra mondiale. Complesso, multidimensionale e polivalente come queste due guerre, è un conflitto a cui manca una narrazione. È caotico e difficile da definire. Ed è anche anonimo, cosa che non dovrebbe sorprenderci: poche guerre hanno avuto un nome mentre erano ancora in corso. Ma dopo l’ennesima settimana dominata dalle notizie di un nuovo allarme terrorismo – stavolta a causa di un giovane nigeriano, addestrato nello Yemen e legato ad Al-Qaeda, che ha cercato di far saltare in aria un aereo di linea statunitense – vale la pena di provare a fare un passo indietro per osservare lo svolgimento del conflitto nel suo complesso. Così potremmo provare a stabilire a che punto siamo e che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro.
La guerra al terrorismo si può dividere in cinque atti. Il primo è cominciato con l’11 settembre 2001, subito seguito dalla guerra in Afghanistan. Il secondo è coinciso con il momento di calma relativa tra il 2002 e il 2003. In questo periodo ci sono stati degli attentati e i combattimenti in Afghanistan sono proseguiti, ma gli scenari apocalittici che molti avevano temuto non si sono realizzati.
Poi, con l’attacco all’Iraq, è arrivato il terzo atto, con un netto intensificarsi del conflitto, rimasto fino a quel momento relativamente circoscritto sia nella portata degli scontri sia nell’estensione geografica. In quel momento è sembrato che i pessimisti avessero ragione. Un’ondata di radicalismo ha contagiato il mondo islamico e, mentre l’Iraq precipitava nel caos, gli attentati si moltiplicavano in tutto il Medio Oriente. La violenza ha toccato anche l’Europa, con gli attentati in Spagna e Gran Bretagna. Allo stesso tempo si sono aggregati le divisioni tra le diverse comunità religiose, e il linguaggio dei politici e dei mezzi d’informazione si è fatto più aggressivo.
Quando i giovani delle metropoli francesi si sono ribellati si è parlato di un’intifada europea, mentre dopo la pubblicazione di vignette satiriche su Maometto in un quotidiano danese, nei paesi musulmani migliaia di persone sono scese in piazza per protestare. Sono stati i giorni più bui di tutto il conflitto.
Nel quarto atto, invece, la situazione è migliorata: perfino nel caos più drammatico alcuni elementi hanno preso una piega positiva. L’atteggiamento dell’opinione pubblica islamica, per esempio, è cambiato. Milioni di musulmani hanno cominciato a condannare gli attentati. Questo non significa che avessero dimenticato l’indignazione nei confronti degli Stati Uniti, di Israele e dell’occidente o che avessero accettato la globalizzazione. Quei musulmani avevano semplicemente smesso di considerare le tattiche di Al-Qaeda come armi legittime.
Uno degli esempi di questa trasformazione è arrivato dalla Giordania: prima degli attentati dl novembre 2005 ad Amman, secondo i sondaggi, quasi due terzi dei giordani condividevano le azioni di Osama bin Laden. Dopo gli attacchi, la quota era scesa al 24 per cento. Nel 2005 in Turchia i sostenitori di Bin Laden erano il 3 per cento, contro il 15 per cento di tre anni prima. La stessa cosa è avvenuta in Marocco, in Arabia Saudita e in Egitto: finché la violenza era lontana, astratta, le tattiche di Bin Laden si potevano condividere. Ma quando le persone hanno cominciato a veder morire i loro soldati, i poliziotti e i vicini di casa, la situazione è cambiata.
Nel 2007 si è registrato un certo miglioramento anche in Iraq. Quell’anno il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha deciso di inviare nuove truppe, con un radicale cambiamento di strategia adottato proprio mentre erano in corso solo tre svolte cruciali. Innanzitutto, gli sciiti avevano conquistato con relativa facilità gran parte dello spazio, geografico e politico, che potevano sottrarre ai sunniti, e la guerra civile si stava esaurendo. In secondo luogo, i miliziani sciiti che avevano combattuto contro i sunniti e americani si erano fortemente indeboliti a causa di problemi di organizzazione e disciplina. Ma la svolta più significativa è stata la terza: le comunità sunnite si sono rivoltate contro i militanti affiliati ad Al-Qaeda.
Costrette a scegliere tra loro interessi e l’ideologia dell’organizzazione, le tribù hanno preferito i primi. In sostanza hanno rifiutato sia la libertà che gli americani cercavano di imporre con i carri armati sia la visione del mondo di Al-Qaeda, altrettanto estranea al contesto culturale locale. In Europa, una più rigorosa organizzazione dei servizi di sicurezza, una maggiore attenzione verso la complessità del problema, la crescente maturità del dibattito pubblico e la scelta del nuovo governo britannico, guidato fa Gordon Brown, di accantonare il linguaggio fortemente ideologizzato dell’era Blair hanno consolidato i progressi fatti.
L’ultimo atto
L’uscita dall’abisso in cui si era precipitati a metà decennio è stata lenta ma costante. E oggi, all’inizio del 2010, nel mondo musulmano il sostegno a Bin Laden non fa che diminuire, mentre in occidente la violenza, seppure ancora allarmante, non viene più percepita come una minaccia per l’esistenza della nostra società. Che succederà nel quinto atto? La prima risposta riguarda l’Afghanistan. Mentre l’attenzione si concentrava sui fronti secondari, i taliban hanno riconquistato vaste zone del paese. Con l’aumento delle truppe statunitensi, ci saranno nuovi combattimenti, ma il ritiro è previsto per il 2011. gli occidentali sono stanchi e vogliono, se non la pace, almeno un coinvolgimento meno impegnativo. Gli scontri dei prossimi mesi potrebbero essere l’ultimo sussulto del conflitto.
Oggi è possibile immaginare un futuro non troppo lontano in cui le notizie provenienti dai fronti della lotta al terrorismo non occuperanno più le prime pagine dei giornali ogni giorno. Sarà possibile, allora, dare un nome a questa guerra? In generale sono i vincitori a decidere come chiamare i conflitti. Ma in questo momento è difficile trovare chi possa rivendicare la vittoria. Al-Qaeda ha perso molti dei suoi leader e non ha ottenuto quasi nessuno dei suoi obiettivi. Il radicalismo islamico rimane un fenomeno disorganico, le masse musulmane non sono insorte, l’istituzione di un califfato non è imminente e l’occidente non sta è stato indebolito come Al-Qaeda sperava. Gli unici governi che sono stati rovesciati nel mondo islamico sono stati quelli deposti dalle potenze occidentali, e la crisi finanziaria ha fatto più danni all’economia globale dell’11 settembre e di tutti gli attentati dello scorso decennio. L’economia statunitense ha dimostrato grandi capacità di ripresa, e anche in Europa gli scenari più terribili non si sono avverati.
Tirando le somme, si può dire che le società e i sistemi politici occidentali supereranno quest’ondata di violenza radicale come hanno superato le precedenti. Del resto, neanche in Medio Oriente c’è stata la catastrofe pronostica da alcuni osservatori. Comunque è difficile sostenere che a vincere sia stato l’occidente. Le minacce rimangono, le cause profonde del terrorismo non sono state affrontate e i progressi ottenuti sono tutt’altro che solidi. Nel dicembre del 2004, dopo la rielezione di George W. Bush, la rivista ufficiale dei servizi segreti statunitensi prevedeva una duratura “prosecuzione del predominio americano”. Nel 2009 quegli stessi servizi hanno annunciato che gli Stati Uniti stanno perdendo potere in un mondo sempre più multipolare. Se questa è una vittoria, l’America non potrà permettersene altre.
Gli sconfitti di questa guerra non sono invece difficili da individuare. Si tratta tutte le persone che si sono trovate sotto il fuoco incrociato degli scontri: le vittime dell’11 settembre, di Londra e di Madrid, quelle delle violenze settarie di Baghdad, gli uomini e le donne uccisi in Afghanistan dai missili statunitensi e dai kamikaze. E poi le persone giustiziate da Al Zarqawi, quelle che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non sono gli sconfitti, però, a decidere che nome dare alle guerre. L’unica cosa che si può prevedere con una ragionevole certezza è che nessuno troverà presto un nome appropriato per questo conflitto in cinque atti ancora senza titolo.
Jason Burke
Giornalista “Observer”
Esperto terrorismo islamico
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