Post di Pace...
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Cari lettori, questa settimana per le STORIE DI PACE , che hanno visto la luce solo oggi in ESCLUSIVA sabato 14 settembre, vi ho fatto un...
giovedì 24 novembre 2011
Torneremo e saremo milioni...
martedì 30 agosto 2011
Dal 19 settembre...di nuovo operativi per costruire la Pace...
lunedì 8 agosto 2011
Aggiornamenti di Pace...
Continuate a seguirci numerosi!!!!!
giovedì 4 agosto 2011
Estate di Pace...
A distanza di mesi, noi ci chiediamo: Com'è la situazione in Afghanistan? e in Iraq? e in Libia?
Per lungo mesi ci hanno sfracassato i coglioni con servizi giornalistici di cordoglio a Gheddafi, e gli altri o semplicemente per far vedere che a Lampedusa sbarcavano ogni giorni migliaia di libici per salvarsi dalla guerra.
MENZOGNE!!!!!!!!!
TUTTE STRONZATE, la questione sbarchi è un problema ben diverso dalla guerra libica, della quale non abbiamo più notizie, è deve essere affrontato per dare un aiuto ai nostri fratelli che sbarcano ogni giorno, cercando di dare loro la possibilità di integrarsi nella nostra società. Ma il fatto è che se vengono accolti in condizioni di merda, la loro ira non fa altro che sfociare in fughe incontrollate, criminalità e quant'altro e poi quando succede qualcosa di drammitico in Italia, non facciamo altro che dare la colpa a Tunisini, Algerini, Eritrei, Albanesi, Rumeni e via dicendo.
NO. IO NON CI STO E MI DISSOCIO DA OGNI FORMA DI DISCRIMINZIONE, I FRATELLI TUNISINI, ALGERINI, ERITREI, ALBANESI, RUMENI, CHE VENGONO IN ITALIA PER CREARSI UNA NUOVA VITA, SONO RISORSA PER VALORIZZARE IL NOSTRO PAESE, SONO FRATELLI DA INTEGRARE IN UNA SOCIETA' CIVILE.
MA TUTTO QUESTO IN ITALIA NON C'E', NON ESISTE E QUANDO SENTO PARLARE MALE DEI MIEI FRATELLI, PERMETTETEMI DI DIRE CHE IL "GRANDE" GIORGIO GABER, AVEVA RAGIONE: "IO NON MI SENTO ITALIANO, MA PER FORTUNA O PURPTROPPO LO SONO..."
lunedì 30 maggio 2011
Il cordoglio eterno per i nostri ragazzi e i fratelli afghani...
giovedì 26 maggio 2011
E va sempre così...tanto stare zitti ci conviene!!!!
Bolivia, al via il progetto “Mi agua”
Fortemente voluto da Evo Morales garantirà acqua potabile per tutti e la possibilità di creare nuove infrastrutture
L'acqua non sarà più un problema da affrontare per i boliviani e la conferma arriva direttamente dalle parole pronunciate dal presidente Evo Morales, durante un incontro a cui hanno partecipato migliaia di persone aChuquisaca, uno dei distretti boliviani.
Qui sono ben 79 i progetti già approvati. Progetti che porteranno acqua ai villaggi e alle comunità della zona e che hanno visto lo Stato investire una cifra equivalente a circa 8 milioni di dollari.
Acqua potabile per tutti, quindi. Un progetto fortemente voluto dal presidente che ha fatto molti importanti investimenti economici per dare seguito alla sua volontà di vedere un Paese che si sviluppi verso la strada dell'autosufficienza alimentare.
In totale il progetto, denominato "Mi Agua", prevede finanziamenti che vanno da un minimo di 100 milioni di dollari a un massimo di 300 e che verranno destinati a 327 comuni che potranno in questo modo approvvigionarsi di acqua potabile.
La possibilità di rifornire d'acqua villaggi e comunità è estremamente importante anche per la possibilità d'irrigazione delle zone agricole e di conseguenza diventa un passaggio fondamentale per arrivare alla totale indipendenza nel settore alimentare.
In ogni caso, il progetto è colossale e prevede che alla fine ogni comune potrà contare su un finanziamento pari a circa 300mila dollari. Il progetto prevede che a beneficiarne siano solo ed esclusivamente i villaggi e le comunità considerando che l'amministrazione ha pensato aaltri programmi per le grandi città del Paese.
Morales in questo progetto crede molto e lo ritiene fondamentale per lo sviluppo del Paese. Da quando è iniziato, infatti, sono stati davvero molti i sindaci dei municipi che si sono adoperati per portare a casa i finanziamenti promessi e migliorare le condizioni di vita della popolazione e non solo.
A tutti gli effetti "Mi Agua" serve anche per ampliare i servizi a disposizione dei cittadini e per la costruzione di dighe (per la produzione di energia elettrica), costruzione di pozzi per la ricerca di acqua, dislocamento di una fitta rete di tubature per il trasporto dell'acqua e aree dedicate alla sua conservazione.
In ultimo: il Fondo nazionale per gli investimenti sociali erogherà nei prossimi giorni le somme necessarie per l'avvio dei progetti per l'irrigazione dei campi agricoli.
martedì 17 maggio 2011
Pakistan, un modo nuovo di fare scuola
Nella provincia di Sindh, un esperimento per educare le nuove generazioni al pensiero critico
Educare le nuove generazioni al pensiero critico. La scommessa viene da Sindh, provincia del Pakistan il cui governo ha deciso di dare una rispolverata al sistema scolastico pubblico, viziato dai condizionamenti ideologici dei regimi autoritari e del fondamentalismo coranico e talebano. Una bella sfida per un Paese che è al secondo posto nel mondo per numero di ragazzi che non vanno a scuola (25 milioni) e dove solo il 32 per cento delle donne sa leggere (censimento 2008).
Sharmeen Obaid-Chinoy, giornalista edocumentarista pakistana, è uno dei consulenti che aiuteranno Sindh a cambiare volto alla scuola. Chiacchierando con lei si intuisce perché il governo le ha affidato questo compito: laureata in economia e politica, attivista per i diritti civili, vincitrice di un Emmy Award per il documentario "Pakistan:Children of the Taliban", Sharmeen incarna un ideale di donna intellettuale poco comune in Pakistan: letterata, anticonformista e consapevole.
"La mia fortuna più grande è stata quella di poter studiare in una scuola privata” racconta Sharmeen a PeaceReporter. “In Pakistan la differenza tra istituti privati e pubblici è abissale. Nei primi gli studenti ricevono un’educazione all’occidentale, moderna e competitiva. Nei secondi sono indottrinati a non pensare. I concetti contenuti nei libri di scuola, spesso errati e datati, vengono appresi a memoria, senza essere capiti. Gli insegnanti, del resto, non sono tenuti a fornire strumenti di interpretazione della realtà ma si limitano ad essere il prodotto di un sistema che svezza generazioni di giovani fragili , facili prede del terrorismo”.
Ma qualcosa, almeno in una delle quattro province del Paese, sta per cambiare. Abbiamo chiesto a Sharmeen di raccontarci in anteprima la riforma promossa da Sindh.
Il progetto non è ancora ufficialmente partito. Ci vuoi anticipare di cosa si tratta?
Abbiamo da poco terminato la fase di raccolta dei fondi e nel giro di un mese partiremo con una campagna mediatica per portare attenzione sul tema. Le linee di intervento del progetto di riforma sono tre: la prima è di diffondere un nuovo approccio mentale. Vogliamo mettere i giovani nelle condizioni di sviluppare un pensiero critico nei confronti della società in cui vivono. Lo faremo, ad esempio, inserendo esercizi di problem solving, creatività e logica nel programma didattico; Il secondo intervento sarà avviare un programma di training per gli insegnanti, che dovranno essere gli ambasciatori del cambiamento culturale. Il terzo consisterà nel sostituire i libri di testo utilizzati nelle scuole pubbliche con volumi aggiornati in grado di veicolare una visione più ampia dei fatti.
Chi scrive i libri di testo in Pakistan?
Fino a non molto tempo fa era il governo a scrivere e a selezionare, attraverso una commissione speciale, i libri più adatti a rientrare nei programmi scolastici. Negli anni ‘70 erano diffusi libri molto moderni. Poi nel corso degli anni ‘80 sono stati sostituiti da testi sempre più faziosi e parziali. Ogni riferimento a ciò che accadeva fuori dal Pakistan è stato eliminato, con l'effetto di chiudere il nostro Paese in un isolamento pericoloso. Oggi, fortunatamente assistiamo alla nascita di un nuovo mercato dell’editoria privato. Questo è positivo perché getta le basi per una pluralità di idee prima inconcepibile e per una competizione sana.
Come riuscirete a cambiar la testa degli insegnanti
E’ dura perché manca la mentalità. Nella provincia di Sindh ci sono 1.500 docenti (per circa 13 milioni di giovani sotto i 16 anni ndr). La sfida più grande sarà riuscire a trasmettere loro fiducia in se stessi e a convincerli dell’importanza del loro ruolo formativo. Per questo stiamo scrivendo delle vere e proprie “teacher’s guide” con cui li sproneremo a diventare portavoce di un pensiero libero.
Quanto tempo ci vorrà per fare tutto questo?
Tanto. Ci vorrà una generazione almeno per cambiare le cose. Dieci, quindici anni. Ma dobbiamo pur cominciare, no? Era ora che il governo se ne accorgesse. Il mondo è di chi ha pazienza, dice un proverbio, e Sharmeen Obaid-Chinoy non è una che si arrende alla prima difficoltà. Grazie al suo impulso, nel 2007 prende luce il “Citizen Archive of Pakistan”, il primo archivio digitale pakistano nato per documentare la storia orale del Paese attraverso interviste, fotografie e testimonianze del passato. Il Cap, di cui Sharmeen è oggi Presidente, ha tra le sue funzioni quella di correggere nelle nuove generazioni gli errori del passato. Per esempio con il programma di scambio culturale “Exchange for change” in cui studenti Pakistani e Indiani decidono di inviarsi lettere, fotografie e racconti per un anno per apprendere, gli uni dagli altri, a non avere pregiudizi e a farsi una opinione propria, sin da piccoli.
"Da Peacereporter.net"
Un cordoglio...lungo un mese
venerdì 1 aprile 2011
Storie di Pace...Muhammad Yunus
La "Storia di Pace" di questa settimana è quella di Muhammad Yunus, economista e banchiere, ideatore della Grameen Bank, prima banca al mondo ad effettuare prestiti ai più poveri tra i poveri basandosi non già sulla solvibilità, bensì sulla fiducia. E' stato Premio Nobel per la Pace nell 2006.
mercoledì 30 marzo 2011
Il governo peruviano tende la mano agli indigeni
Le autorità peruviane hanno ceduto allapressione internazionale e hanno annunciato la decisione di collaborare con il governo brasiliano per impedire che itaglialegna invadano il territorio delle popolazioni "incotattate", ossia gli indigeni che sono riusciti a evitare finora ogni contatto con la nostra civiltà. Popoli che vivono in sembianza con la natura e il cui ecosistema è fragile e delicato. Qualsiasi cambiamento artificiale potrebbe compromettere per sempre la loro esistenza. "Ci metteremo in contatto con l'istituto brasiliano Funai per proteggere questi popoli e impedire le incursioni illegali dei taglialegna e il saccheggio dell'Amazzonia". Queste le parole del Ministro degli esteri peruviano in un comunicato stampa rilasciato mercoledì 2 febbraio.
Si tratta dunque di una decisione storica, arrivata grazie alla campagna lanciata dalla OngSurvival International per proteggere le terre degli Indiani isolati che abitano nell'area di frontiera tra Perù e Brasile, la quale ha ottenuto una copertura mediatica internazionale. Al centro di tutto, le nuove immagini scattate a questo popolo dalla Funai, il dipartimento governativo degli affari indiani del Brasile, con lo scopo, proprio, di sensibilizzare l'opinione pubblica e salvare il salvabile. Foto che mostrano una comunità prospera e forte con ceste piene di manioca e papaia appena raccolte nei loro orti."Come primo passo è davvero incoraggiante - ha replicato il direttore generale di Survival Stephen Corry - Confidiamo che a questa dichiarazione seguano rapidamente azioni concrete".
A minacciare seriamente la sopravvivenza della tribù è appunto la penetrazione massiccia e illegale dei cercatori di legna pregiata che penetrano in questo fazzoletto di Amazzonia dal lato peruviano del confine. Le autorità brasiliane ritengono che l'invasione stia spingendo gli Indiani isolati peruviani verso il Brasile, e che i due popoli possano entrare in conflitto.
Da anni Survival e altre Ong chiedono al governo peruviano di intervenire con determinazione ed efficacia per fermare l'invasione, ma è stato fatto ben poco.
L'anno scorso, l'organizzazione americana Upper Amazon Conservancy ha effettuato l'ultimo di una serie di voli di ricognizione sul lato peruviano fornendo ulteriori prove del taglio illegale del legname in corso in un'area protetta.
"È necessario ribadire che queste tribù esistono" ha dichiarato oggi Marcos Apurinã, coordinatore dell'organizzazione degli Indiani amazzonici brasiliani Coiab, "quindi abbiamo deciso di appoggiare la diffusione di queste immagini che documentano i fatti. I fondamentali diritti umani di questi popoli vengono ignorati, soprattutto quello alla vita. Pertanto, è di vitale importanza proteggerli."
"Dobbiamo proteggere i luoghi in cui gli Indiani vivono, cacciano, pescano e coltivano - ha precisato, invece, Davi Kopenawa Yanomami, famoso leader degli Indiani brasiliani - Diffondere le immagini degli Indiani incontattati è utile perché mostrano al mondo intero che sono lì, nelle loro foreste, e che le autorità devono rispettare il loro diritto di vivere nelle loro terre".
"Siamo profondamente preoccupati per la mancanza di intervento da parte delle autorità - ha quindi precisato l'organizzazione degli Indiani amazzonici Aidesep - Nonostante le sollecitazioni contro il disboscamento illegale che giungono da fuori e dentro il Perù, non è ancora stato fatto nulla". Almeno finora.
Stella Spinelli (Peacereporter.net)
Libri di Pace...Il contrario della morte di Roberto Saviano
martedì 29 marzo 2011
Cambiamenti a vista d'occhio...sul blog, cambia nome la pagina "Messaggi di Pace"
Poesie contro la guerra..."Uomo del mio tempo" di Salvatore Quasimodo
La Libia che non si legge sui giornali
Sono stato in Libia, da lavoratore, fino al 21 febbraio scorso quando, costretto dagli eventi, ho dovuto abbandonarla con l’ultimo volo di linea Alitalia.
Ho avuto modo di conoscere gran parte del Paese, da Tripoli a Bengasi, a Ras Lanuf a Marsa El Brega a Gadames, non frequentando gli ambienti dorati, ovattati e distaccati dei grandi alberghi, ma vivendo da lavoratore tra lavoratori e a quotidiano contatto con ambienti popolari, sempre riscontrando cordialità e sentimenti di amicizia per certi versi inaspettati e sorprendenti. Non era raro per strada sentirsi chiedere di poter fare assieme una fotografia da chi si accorgeva di stare incrociando degli italiani, peraltro numerosissimi anche per le tantissime imprese che vi operavano, dalle più grandi (ENI, Finmeccanica, Impregilo ecc.) alle più piccole (infissi, sanitari, rubinetterie, arredamenti ecc.), in un ambiente favorevolissimo, direi familiare…
Da quello che ho potuto constatare il tenore di vita libico era abbastanza soddisfacente: il pane veniva praticamente regalato, 10 uova costavano l’equivalente di 1 euro, 1 kg di pesce spada cira 5 euro, un litro di benzina circa 10 centesimi di euro; la corrente elettrica era di fatto gratuita;
decine e decine di migliaia di alloggi già costruiti e ancora in costruzione per garantire una casa a tutti (150-200 m2 ad alloggio….); l’acqua potabile portata dal deserto già in quasi tutte le città con un’opera ciclopica, in via di completamento, chiamata “grande fiume”; era stata avviata la costruzione della ferrovia ad alta velocità e appaltato il primo lotto tra Bengasi e il confine egiziano della modernissima autostrada inserita nell’accordo con l’Italia; tutti erano dotati di cellulari, il costo delle chiamate era irrisorio, la televisione satellitare era presente sostanzialmente in ogni famiglia e nessun programma era soggetto a oscuramento, così come internet alla portata di tutti, con ogni sito accessibile, compreso i social network (Facebook e Twitter), Skype e la comunicazione a mezzo e-mail.
Dalla fine dell’embargo la situazione, anche “democratica”, era migliorata tantissimo e il trend era decisamente positivo: i libici erano liberi di andare all’estero e rientrare a proprio piacimento e un reddito era sostanzialmente garantito a tutti.
Quando sono scoppiati i primi disordini, la sensazione che tutti lì abbiamo avuto è stata quella che qualcuno stava fomentando rivalità mai sopite tra la regione di Bengasi e la Tripolitania, così come le notizie che rilanciavano le varie emittenti satellitari apparivano palesemente gonfiate quando non addirittura destituite da ogni fondamento: fosse comuni, bombardamenti di aerei sui dimostranti ecc.
Certamente dal punto di vista democratico i margini di miglioramento non saranno stati trascurabili, del resto come in tanti altri paesi come l’Arabia Saudita, la Cina, il Pakistan, la Siria, gli Emirati Arabi, il Sudan, lo Yemen, la Nigeria ecc. ecc… e forse anche un po’ da noi! Pertanto prima o poi qualcuno dovrà spiegare perché in questi Paesi non si interviene…
Il cantante cubano Silvio Rodriguez ha definito la risoluzione dell’ONU un atto di barbarie contro la Libia
venerdì 25 marzo 2011
Storie di Pace...Gene Sharp
La "Storia di Pace" di questa settimana è dedicata a Gene Sharp, filosofo, politico ed intellettuale statunitense, sostenitore del pensiero non violento.
mercoledì 23 marzo 2011
Filippine, speranze di pace
Nei giorni scorsi, il gruppo armato fondato e capeggiato dall'anziano intellettuale maoista José Maria Sison - da anni rifugiato in Olanda - hanno accettato la ripresa dei negoziati di pace, interrotti nel 2004dall'allora presidentessa Gloria Arroyo.
Dopo oltre sei anni di stallo, durante il quali il conflitto armato è riesploso con violenza e lo stesso Sison ha subito un arresto in Olanda, martedì i negoziatori delle due parti sono tornati a sedersi attorno a un tavolo in Norvegia, alla periferia di Oslo.
A dare speranza è il fatto che per la prima nella storia di questo conflitto, l'Npa ha ha accettato di rispettare un cessate il fuoco di sette giorni per favorire la ripresa del dialogo:non era mai successo da quando, venticinque anni fa, ribelli e governo hanno iniziato a parlarsi.
La svolta di questi giorni è il risultato del nuovo corso politico intrapreso dalle Filippine dopo l'elezione di Benigno 'Noynoy' Aquino III. Il nuovo presidente, erede della tradizione politica popolare di sua madre Corazon, ha offerto all'Npa riforme sociali in cambio della pace.
I guerriglieri, che ufficialmente combattono per instaurare un governo socialista, potrebbero accettare di deporre le armi in cambio di serie iniziative del governo per contrastare le drammatiche ingiustizie e diseguaglianze che ancora affliggono le zone rurali dell'arcipelago filippino.
Secondo un recente rapporto dell'International Crisis Group (Icg), il ritorno al tavolo negoziale è anche il frutto dell'età ormai avanzata della leadership politica dell'Npa - ormai consapevole del fatto che non riuscirà mai a vedere il trionfo della rivoluzione - e del del riconoscimento, da parte dei vertici militari filippini, dell'impossibilità di una vittoria definitiva sulla ribellione.
Negli ultimi anni, infatti, la guerriglia maoista filippina si è rafforzata sia in termini di uomini, che di territorio controllato che di azioni condotte: tutto questo nonostante l'intensificazione delle operazioni militari di contro-insurrezione, spesso affidate a gruppi paramilitari che si sono macchiati di gravi crimini e violazioni dei diritti umani.
Il timore del presidente Aquino è che alcuni generali, quelli della destra oltranzista dell'esercito, notoriamente contraria a ogni trattativa con ''i terroristi rossi'', possano sabotare la ripresa dei negoziati. Timori cresciuti dopo la cattura di uno dei leader storici dell'Npa, Alan Jazmines, operata dai militari lunedì, proprio alla viglia dei negoziati di Oslo.
Da: "Peacereporter.net
martedì 22 marzo 2011
Evo Morales ha chiesto di revocare il Premio Nobel per la Pace al presidente americano Barack Obama
Evo Morales ha chiesto di revocare il Nobel per la Pace al presidente americano Barack Obama, che il leader socialista della Bolivia ritiene indegno del premio perché‚ "promuove la violenza" con l'intervento militare in Libia. Obama "in questo momento difende la pace o incoraggia piuttosto la violenza? Come è possibile che un premio Nobel per la Pace possa avviare un'invasione, un bombardamento?", ha chiesto il presidente latino-americano. Il presidente boliviano si è rivolto direttamente al Comitato dei Nobel norvegese di ritirare il premio assegnato al presidente degli Stati Uniti Barack Obama nell'ottobre del 2009, a pochi mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca. "Come è possibile - ha detto Morales che un premio Nobel per la Pace guidi una combriccola per assalire e invadere, questa non è difesa dei diritti umani nè (rispetto) per l'autodeterminazione dei popoli". Poi Morales è tornato a criticare la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla Libia: "L'Onu dovrebbe piuttosto chiamarsi Oni, ovvero Organizzazione delle Nazioni che Invadono" ha dichiarato con amarezza !
Poesie contro la guerra...Dario Bellezza
Quando una guerra la chiamano risoluzione...
venerdì 11 marzo 2011
Storie di Pace...Angelo Frammartino
Ecco per voi una nuova "Storia di Pace", dedicata questa settimana ad Angelo Frammartino, volontario in una missione di Pace VERA, non come le pseudo "missioni di pace" dei militari mercenari, che con le armi sparano sui civili. Angelo ha dato il suo contributo in Palestina aiutando i bambini vittime del conflitto israelo-palestinese. Ma Angelo non è molto di più...non voglio dirvi altro, andate nella pagina "Storie di Pace" e lo scoprirete voi...
"Le vere missioni di Pace, sono quelle che compiamo agendo con il cuore e l'amore. Non con le armi." Daniele Pastore
giovedì 10 marzo 2011
Per una Palestina unita
Dopo il vaffanculo ad Hamas, Israele, Fatah, Onu, Unwra e il vaffanculo Usa!, incipit del primo documento dei Gybo, i ragazzi di Gaza desiderano mandare a quel paese anche tutti quei media occidentali che in queste settimane hanno strumentalizzato il loro manifesto, il cyber-urlo di rabbia di una generazione di giovani palestinesi oppressa da un nemico esterno e soffocata all'interno da governi a corto di lungimiranza e poco rappresentativi. Nel caffè degli artisti di Gaza City dove sono solito incontrarli, ho cercato di spiegare come molti giornalisti europei e americani sbarcano a Tel Aviv ed oltrepassano il valico di Erez con già il pezzo scritto in testa, e nella Striscia vanno a caccia di conferme contro il governo di Gaza. E in effetti, dal Guardian fino a La Stampa, il loro primo urlo di sfogo, magari ingenuo ma certamente genuino, e' stato dipinto come un attacco diretto ad Hamas. Questa mistificazione, è stata poi raccolta ancora più ingenuamente e rilanciata da molti attivisti in Europa e nel mondo, specie da coloro che insistono a sostenere una fazione a scapito dell'altra ignorando che di fatto la rabbia della maggior parte dei ragazzi palestinesi non ha al momento alcuna rappresentanza politica. Addirittura alcuni da fuori dalla Striscia hanno accusato i Gybo di essere a libro paga di Abu Mazen e la sua cricca di collaborazionisti; intellettuali e attivisti seduti nei loro confortevoli salotti che non si sono mai sporcati mai le mani del sangue e della sofferenza di un popolo in perenne lotta contro l'occupazione,e che non si scomodano neanche di approfondire le questioni sui qui discettano con la protervia dell'onniscenza.. Dopo tutto, per sciogliere ogni dubbio sulla assoluta buona fede e autenticità del movimento Gybo non è necessaria un'indagine investigativa da premio Pulitzer, ma basta digitare sulla tastiera l'indirizzo del loro sito e leggersi il loro secondo messaggio, pubblicato ben 2 mesi fa, nel quale con forza rispedivano al mittente le strumentalizzazioni e le accuse di chi li ha additati di parteggiare per questa o quella fazione. Oggi i Gybo sono colonna portante del movimento 15 marzo, che si propone di portare sulle piazze della Palestina e nel mondo migliaia di persone, in una giornata che è stata battezzata non della collera, ma bensì della riconciliazione, con una forte e sensata richiesta di "End of division", la fine della divisione fra Fatah e Hamas. "Gaza, Ramallah, Jenin, Nablus, ma anche in molte città della Palestina del '48 come Haifa e Tel Aviv, ci saranno manifestazioni e sit-in, oltre che in tutto il mondo arabo e in Brasile, in Italia, in Francia e in Italia" mi conferma Abu Yazan. Gaza è in fermento, e mentre i ragazzi mi aggiornano sui preparativi, a Sud della Striscia, a Khan Younis e Rafah volantinaggi stanno informando la popolazione dell'evento. "Buona parte delle famiglie beduini è dalla nostra parte, e in generale, non crediate si riverseranno in piazza solo giovani, ma bensì padri madri e nonni," continua Abu Yazan, "abbiamo colloqui stretti con tutti i i leader delle varie fazioni e sono i benvenuti con noi il 15 marzo, a patto che non espongono alcuna bandiera se non quella palestinese, e non intonino altri slogan se non quello che richiamino all'unità nazionale". I ragazzi sono ancora più motivati e certi della riuscita del loro evento, nonostante l'oppressione e l'intimidazione che a Gaza come a Ramallah inibisce la libertà di espressione: nella Striscia negli ultimi due giorni, la polizia di Hamas ha arrestato dodici giovani che distribuivano depliant e adesivi sull'evento. Continua Any Yazen: "La Croce Rossa ci ha fornito delle tende e l'idea è quella di restare accampati dal 15 marzo giorno e notte senza sosta (a dormire in piazza rimarrebbero solo gli uomini per non scandalizzare i dettami del governo della Striscia) fin quando Gaza e Ramallah non si siedano ad un tavolo comune. Alcune famiglie benestanti ci hanno promesso forniture di cibo e bevande, agli arghile provvederemo noi", continua, "ci stiamo accordando con la polizia di Hamas e abbiamo predisposto un nostro servizio di sicurezza interna affinchè' ogni atto di violenza o il semplice inneggiare contro il senso della nostra giornata sia inibito. Chiunque creerà disordine verrà allontanato dalla piazza". La rivoluzione dei giovani egiziani brucia nei loro occhi, e contagia la loro convinzione che fra una settimana il centro di Gaza city possa tramutarsi una Tahrir Square gemella.
lunedì 7 marzo 2011
8 Marzo 1911 - 8 Marzo 2011 Festa della Donna, ma anche IMPORTANTE ricorrenza.
Libia sull'orlo di una guerra civile. I telegiornali italiani difendono Gheddafi
venerdì 4 marzo 2011
Storie di Pace...Malcom X
giovedì 3 marzo 2011
E la chiamano democrazia...
venerdì 25 febbraio 2011
Storie di Pace...Rosa Parks
martedì 8 febbraio 2011
Cuba, il popolo sovrano
E' possibile informare una nazione intera sulle riforme che un governo vuole adottare per snellire e modernizzare uno Stato? La risposta, se consideriamo l'esempio cubano, non può che essere affermativa.
Le notizie degli ultimi mesi narrano della profonda ristrutturazione del mondo del lavoro nell'isola. Un modello nuovo, che costerà anche molto alla società cubana. E che non nasconde dei rischi: la perdita di tanti posti di lavoro (anche se poi vi sarà una riconversione in altri settori) potrebbe scatenare proteste nella popolazione e di conseguenza una crisi sociale profonda.
Per spiegare bene le riforme, quindi, serviva una strategia, moderna e sicura. E cosa c'è di meglio che incontrare il popolo e spiegare a voce ciò che sta accadendo. L'idea non è rimasta tale e già da qualche settimana ha preso corpo. Più di 55mila riunioni con la popolazione sono già state effettuate. Molte altre si svolgeranno a breve. A tutte l'affluenza è stata alta. Membri del partito comunista cubano si sono mischiati ai giovani de la Union de Jovenes Comunistas, ai lavoratori, agli studenti. Tutti uniti e con un unico obiettivo: discutere il progetto che si prefigge di cambiare radicalmente alcuni aspetti socio-economici di Cuba.
Soddisfazione è stata espressa dal vicepresidente cubano, Esteban Lazo. "Il processo informatico sta portando alla luce argomenti nuovi. Argomenti utili per la necessaria e improrogabile attuazione del modello socialista cubano" ha detto Lazo alla stampa.
Le proposte emerse durante le riunioni saranno inserite in un documento e presentate per essere discusse al prossimo congresso del Pcc che si terrà ad aprile. "Tutte le proposte, i suggerimenti e le considerazioni emerse durante le riunioni sono da ritenere contributi preziosi. Tutto ciò determina una netta volontà della popolazione nel difendere e rinnovare l'esperienza socialista" ha concluso il vice di Raùl. L'ultima parola, al momento, è proprio del presidente cubano. "Non possiamo portare avanti le trasformazioni che proponiamo se non possiamo contare sul consenso di tutta la popolazione e senza aver ascoltato l'opinione di tutti" ha detto Castro.
domenica 30 gennaio 2011
Pakistan, a sei mesi dal monsone 90 mila bambini soffrono ancora la fame
Dopo sei mesi dalle inondazioni che hanno devastato il Pakistan, quasi un quarto dei bambini della provincia del Sindh è vittima della malnutrizione. Lo riferisce l'Unicef, secondo cui le stime del governo del Sindh parlano di circa 90 mila bambini, tra i 6 mesi e i tre anni, che versano in difficili condizioni di alimentazione.
In un comunicato, l'agenzia Onu ha espresso il suo sconcerto e ha riferito della sua collaborazione con il governo provinciale e federale al fine di arginare il problema. Il monsone che ha colpito nel luglio e agosto scorsi il Pakistan ha coinvolto 20 milioni di persone, distrutto 1.7 milioni di abitazioni e danneggiato 5.4 milioni di acri di terra coltivabile.
Da "PeaceReporter"
venerdì 28 gennaio 2011
Storie di Pace...Madre Teresa di Calcutta
giovedì 27 gennaio 2011
27 Gennaio...Giornata della Memoria, per non dimenticare...MAI!!!!!!!!
lunedì 24 gennaio 2011
India, pace in Assam
Arabinda Rajkhowa, leader politico dei guerriglieri indipendentisti del Fronte unito di liberazione dell'Assam (Ulfa), ha ufficialmente trasmesso al governo statale la decisione di avviare negoziati di pace per porre fine al trentennale conflitto separatista, costato oltre quindicimila morti e centinaia di miglia di sfollati.
Rajkhowa, rilasciato su cauzione il primo gennaio dopo oltre un anno di prigione, ha inviato una lettera al governatore dell'Assam, Tarun Gogoi, nella quale si comunica che il comitato centrale dell'Ulfa, compreso il comandante militare dei ribelli, Paresh Baruah, si riunirà presto per proporre un primo incontro al governo.
''La lettera che ho ricevuto da Rajkhowa esprime la chiara volontà dell'Ulfa di avviare colloqui di pace. Il quando dipende da loro: ce lo comunicheranno non appena i loro vertici si saranno riuniti e avranno deciso''.
L'intensità dei combattimenti tra ribelli e forze governative è iniziata a calare fin dall'estate del 2008, dopo il cessate il fuoco unilaterale proclamato dalla principale unità da combattimento dell'Ulfa: il 28° battaglione 'Kashmir' del comandante Mrinal Hazarika.
Ma è dal 2009, con l'arresto in Bangladesh di gran parte della dirigenza politica dei ribelli, che le attività militari dell'Ulfa sono praticamente cessate. Le ultime notizie di attacchi ribelli e scontri armati con i militari indiani risalgono all'estate scorsa.
A parte l'incognita sull'accettazione dei negoziati da parte di tutti i comandanti locali dell'Ulfa, bisogna ricordare che in Assam rimangono operativi diversi gruppi ribelli minori: in particolare il Fronte nazionale democratico del Bodoland (Ndfb), che ancora lo scorso novembre si è reso protagonista di violenze a sfondo etnico.
Il Fronte unito di liberazione dell'Assam ha iniziato a combattere nel 1979 per la creazione di uno Stato assamese separato dal governo federale indiano, accusato di sfruttare in maniera colonialistica le risorse naturali - soprattutto petrolio - della fertile valle del Brahmaputra, lasciando nella miseria e nel sottosviluppo le popolazioni locali, che in effetti non hanno mai tratto alcun beneficio dal boom economico indiano.
Da un punto di vista storico, i ribelli assamesi basano le loro rivendicazioni indipendentiste sull'esistenza del Regno di Assam (o di Ahom), fondato nel XIII secolo dopo Cristo e rimasto autonomo dall'India fino alla colonizzazione britannica nel 1826.
Fin dalla sua nascita, l'Ulfa - che originariamente si definiva una forza rivoluzionaria e socialista, contraria al sistema delle caste - è sostenuto, armato, addestrato e finanziato dai servizi segreti pachistani (Isi) e dalla loro emanazione bengalese (Dgfi) in funzione anti-indiana. Le basi dell'Ulfa si trovano in Bangladesh, Buthan e Myanmar.
Oltre agli attacchi contro le forze di sicurezza indiane e agli attentati contro stazioni, treni e strutture petrolifere, l'Ulfa si è contraddistinto anche per una sanguinosa campagna - che ha avuto il suo picco nel 2007 - contro i lavoratori immigrati indiani che, secondo l'Ulfa, il governo di Nuova Delhi manda in Assam come coloni.
A pagare il conto più salato di questa guerra sono stati comunque i civili assamesi, vittime di gravi abusi da parte delle forze armate indiane: arresti arbitrari, torture, stupri, esecuzioni extragiudiziali condotti in nome della 'lotta al terrorismo'.
venerdì 14 gennaio 2011
Haiti, un anno dopo
E' passato un anno da quel terribile 12 gennaio, quando la terra haitiana ha tremato tanto forte da distruggere praticamente tutto quello che le stava costruito sopra. Insieme alla distruzione, il terremoto si è portato via centinaia di migliaia di vite umane.
Oltre 220mila sono i morti accertati. Almeno il 35 percento delle vittime aveva meno di 18 anni.
La situazione a 365 giorni da quei terribili minuti non è affatto migliorata. La comunità internazionale non è stata in grado di far partire la macchina della ricostruzione e tutt'oggi circa un milione di persone, fra loro almeno 400mila bambini, vive nelle tendopoli alla mercé di tutto.
A subire le conseguenze di una situazione tragica che non vede una luce di speranza sono i più piccoli.
Secondo le ultime stime, sono almeno 14 mila i minori che sarebbero costretti a lavorare. Più di 4 mila, anche se potrebbero essere molti di più, dormono per le strade delle città, soprattutto nella capitale Port au Prince.
Unicef lancia un altro allarme: molti bambini haitiani sarebbero oggetto di rapimenti per adozioni illegali all'estero. Un affaire redditizio per i trafficanti di uomini che il sisma ha soltanto potuto amplificare. Alcuni mesi fa al confine con la Repubblica Dominicana almeno 1.800 minori sono stati fermati dalle autorità e sottoposti a verifiche. Alcuni di loro erano stati sequestrati. Anche l'aeroporto non è immune da certe storie e sono molti i controlli sui bambini che passano da lì.
Nel frattempo, la ricostruzione promessa fatica ad essere avviata, il colera miete decine di vittime, la politica non dà sufficienti garanzie.
Nemmeno la tornata elettorale ha dato garanzie per una futura stabilità politica dell'isola. La notizia delle ultime ore, infatti, è alquanto clamorosa. Secondo quanto si legge dalle pagine del Washington Post "Un team internazionale di monitoraggio consiglia di escludere il candidato appoggiato dal governo di Haiti dal ballottaggio presidenziale in favore di un musicista popolare finito terzo vicino nei risultati ufficiali impugnati, secondo una copia della relazione ottenuta lunedì da The Associated Press. La relazione dal team dell'Organizzazione degli Stati Americani è stata presentato lunedì al presidente Rene Preval". Insomma, l'ennesima conferma che forze possano essere in grado di gestire, sovvertire e decidere le sorti di quello che da sempre è considerato uno dei paesi più poveri e sottosviluppati del pianeta. E che per l'incapacità e la malafede delle grandi potenze mondiali resterà in questa situazione per molto tempo ancora.
Storie di Pace...La vita di GINO STRADA
Dopo un lungo periodo di stop, siamo tornati.
ABBIAMO aggiornato la pagina "Storie di Pace" che dopo aver letto l'avvincente storia di Don Aniello Manganiello, diamo ora a tutti voi la possibilità di poter conoscere un altro grande uomo che fa valere ogni giorno il suo apporto per la Pace e la Non Violenza, curando le vittime di guerra di Iraq, Afghanistan e tutte le altre guerre dimenticate dai media.
Stiamo parlando di GINO STRADA
giovedì 13 gennaio 2011
Cuba, la Corte Suprema commuta anche l'ultima sentenza di morte
La Corte Suprema cubana ha commutato in una sentenza di 30 anni di carcere anche l'ultima condanna a morte ancora pendente nell'isola caraibica. I gruppi dissidenti cubani riferiscono che si tratta di Humberto Eladio Real Suarez, 40enne cubano americano, arrestato nel 1994 insieme ad altri membri del Partito per l'Unità nazionale democratica, considerata da Cuba un'organizzazione terroristica e da allora nel braccio della morte. Accusato di essersi infiltrato nel paese, Real Suarez era stato condannato alla pena capitale per aver agito contro la sicurezza dello stato e per aver ucciso un uomo con lo scopo di rubargli la macchina. Poche settimane fa erano state commutate altre due sentenze di morte che pendevano sulla testa di due salvadoregni accusati di terrorismo. Pur non essendo stata abolita dall'ordinamento giuridico, la pena capitale non viene applicata a Cuba dal 2003 quando sono stati messi a morte tre cubani accusati di aver dirottato una nave per poter fuggire negli Stati Uniti.
Sudan, sangue sulla frontiera
Un passo avanti e uno indietro. Mentre il Sudan entra nel quarto giorno di un referendum decisivo che pure si sta svolgendo pacificamente, il sangue torna a scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese.
Negli ultimi sei giorni si sono registrate imboscate e scontri tra gruppi armati che hanno fatto oltre 60 morti: gli episodi si sono verificati nello stato di Unity, regione petrolifera considerata parte del nuovo Sud Sudan indipendente, nel Kordofan meridionale e ad Abiyei, aree invece sulle quali Khartoum e Juba non hanno ancora trovato un accordo e difficilmente riusciranno a intendersi in un futuro prossimo. Tra venerdì e sabato, quando fervevano gli ultimi preparativi per l'inizio delle operazioni di voto, è partito l'attacco dei miliziani agli ordini di Gatluak Gai, un ex comandante ribelle del Sudan People's Liberation Army (Spla), l'esercito indipendentista che adesso costituirà la colonna portante delle forze armate del Sud Sudan. A Juba sospettano che Gai e i suoi siano incoraggiati e finanziati da Khartoum con l'obiettivo di far deragliare il referendum. Secondo quanto riferito dal generale dell'Spla Gier Chuang Aluong, il ministro degli Interni del Sud Sudan, le milizie hanno attaccato una base dell'esercito regolare, uccidendo sei soldati. Nel contrattacco, i militari avrebbero ucciso oltre 30 miliziani, arrestandone 32, ai quali adesso verrà chiesto chi e perché ha deciso l'assalto e le imboscate.
L'area più calda resta quella di Abiyei, la regione a cavallo della frontiera che fino a pochi anni fa produceva da sola il 25 per cento della ricchezza petrolifera del Sudan. Qui si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se il territorio è parte del nord o del sud del Sudan. La delicatezza della situazione e l'importanza degli interessi in gioco ha spinto le due parti a rimandarlo a data da destinarsi ma le ferite restano aperte. Domenica hanno cominciato a circolare notizie di un attacco a poliziotti sudsudanesi con un bilancio di 20 morti: le voci sono state confermate dal colonnello Philip Aguer, un portavoce dell'esercito del Sud Sudan. Secondo la ricostruzione dell'ufficiale, ad attaccate sarebbero state truppe delle Forze di Difesa Popolare affiancate da milizie Messereya, una popolazione nomade araba che nella seconda guerra civile sudanese si era schierata con Khartoum. Le stesse milizie sono responsabili dell'attacco ad uno dei pulmini organizzati per riportare gli elettori emigrati nel nord a votare nei loro villaggi: il bilancio è di 10 morti e 18 feriti. Negli ultimi giorni si sono registrati una trentina di episodi analoghi: l'ultimo al confine tra Bahr el Gazel e il Kordofan meridionale, una regione contesa come Abiyei e divisa tra una popolazione cristiana, i Ngok Dinka, che vive prevalentemente di agricoltura, e i Messereya, pastori nomadi che si spingono a sud con il proprio gregge nei periodi di siccità: gli scontri, sempre frequenti, tra i due gruppi per il possesso della terra sono diventati politici, con Juba che si rifiuta di riconoscere loro la cittadinanza (e quindi il diritto di voto) e Khartoum che invece vuole farli votare, sapendo che si opporrebbero alla secessione del sud.
Che però ormai è un dato acquisito, anche perché l'affluenza ha superato il 60 per cento, la soglia al di sotto della quale sarebbe stato dichiarato nullo. Nel sud, non ci si chiede più "come va?" ma "hai votato ?", segno che la popolazione sente tutta l'importanza di un momento percepito come storico. Tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare. Migliaia di persone sono in arrivo anche da Uganda e Kenya, dove pure l'International Organization for Migration delle Nazioni Unite aveva predisposto seggi elettorali per la diaspora, che in parte non si è fidata dell'Onu, temendo che gli osservatori avrebbero potuto essere infiltrati da agenti sudanesi. L'indipendenza del sud è alle porte: i risultati definitivi verranno annunciati il 14 febbraio. Resta la questione della frontiera: una frontiera etnica ma anche religiosa, tra un nord musulmano e un sud cristiano animista, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponga alla secessione. A sud si festeggia già ma con un po' di amaro in bocca: mancano ancora alcune terre "irredente": Abiyei, il Kordofan meridionale e il Nilo Blu. Non lo faceva notare un pinco pallino qualsiasi ma Mabior de Garang, il figlio dell'eroe della lotta indipendentista del Sud Sudan, John Garang de Mabior, dando voce al sentimento di molti. La questione andrà affrontata e trovare una soluzione non sarà facile. Intanto, nelle terre contese il sangue è già tornato a scorrere.