Post di Pace...

domenica 30 gennaio 2011

Pakistan, a sei mesi dal monsone 90 mila bambini soffrono ancora la fame

Lo ha riferito l'Unicef che, in collaborazione con il governo federale del Sindh, è impegnata a fronteggiare il problema

Dopo sei mesi dalle inondazioni che hanno devastato il Pakistan, quasi un quarto dei bambini della provincia del Sindh è vittima della malnutrizione. Lo riferisce l'Unicef, secondo cui le stime del governo del Sindh parlano di circa 90 mila bambini, tra i 6 mesi e i tre anni, che versano in difficili condizioni di alimentazione.

In un comunicato, l'agenzia Onu ha espresso il suo sconcerto e ha riferito della sua collaborazione con il governo provinciale e federale al fine di arginare il problema. Il monsone che ha colpito nel luglio e agosto scorsi il Pakistan ha coinvolto 20 milioni di persone, distrutto 1.7 milioni di abitazioni e danneggiato 5.4 milioni di acri di terra coltivabile.


Da "PeaceReporter"

venerdì 28 gennaio 2011

Storie di Pace...Madre Teresa di Calcutta




Eccoci!!!!!!!!!!!!




Cari lettori come ogni venerdì, è stata aggiornata la pagina "Storie di Pace" e questa settimana, raccontiamo la storia di Madre Teresa di Calcutta, che ha donato la sua vita agli altri, diffondendo un sano messaggio di Pace e Non Violenza, attraverso la parola di Dio.

giovedì 27 gennaio 2011

27 Gennaio...Giornata della Memoria, per non dimenticare...MAI!!!!!!!!

Oggi è il Giorno della Memoria, il Giorno in cui tutti sentiamo il dovere di rendere omaggio a tutti quei FRATELLI ebrei, neri, zingari, dissidenti politici, liberi pensatori, donne, bambini, anziani, ma soprattutto UOMINI (inteso come esseri umani in generale) che 66 anni fa sono stati torturati e uccisi brutalmente nei campi di concentramento nazisti. Oggi il giorno in cui i politici si riempono la bocca di belle parole, frasi scontate, che non fanno altro che aumentare il dolore. Parole scontate che fanno morire, ogni anno che passa, quei Fratelli che non dimenticheremo. In questo giorno di dolore, dove tutti predichiamo bene e razzoliamo male, vorrei che una volta per tutte finisse l'omertà di tutti coloro che di fronte al qualunquismo politico, continuano a sovvenzionare guerre devastanti, che provacano ogni giorno dolore. Oggi è il Giorno della Memoria, nel quale io, voglio ricordare i miei Fratelli, torturati 66 anni fa, ma voglio anche sia il giorno della Memoria per ricordare tutti i Fratelli che muoiono ancora oggi nelle guerre ingiuste. Vorrei che questo giorno della Memoria, sia uno spunto per riflettere a fondo, per poter dire basta ad ogni guerra, ad ogni tortura, ad ogni giustizia. Vorrei che questo Giorno della Memoria, sia il giorno da cui partire, per diffondere un sano messaggio di pace e non violenza.

lunedì 24 gennaio 2011

India, pace in Assam

Dopo trent'anni di guerra e oltre quindicimila morti, i ribelli separatisti del Fronte unito di liberazione dell'Assam (Ulfa) si dichiarano pronti a negoziare con il governo indiano
Arabinda Rajkhowa, leader politico dei guerriglieri indipendentisti del Fronte unito di liberazione dell'Assam (Ulfa), ha ufficialmente trasmesso al governo statale la decisione di avviare negoziati di pace per porre fine al trentennale conflitto separatista, costato oltre quindicimila morti e centinaia di miglia di sfollati.

Rajkhowa, rilasciato su cauzione il primo gennaio dopo oltre un anno di prigione, ha inviato una lettera al governatore dell'Assam, Tarun Gogoi, nella quale si comunica che il comitato centrale dell'Ulfa, compreso il comandante militare dei ribelli, Paresh Baruah, si riunirà presto per proporre un primo incontro al governo.

''La lettera che ho ricevuto da Rajkhowa esprime la chiara volontà dell'Ulfa di avviare colloqui di pace. Il quando dipende da loro: ce lo comunicheranno non appena i loro vertici si saranno riuniti e avranno deciso''.

L'intensità dei combattimenti tra ribelli e forze governative è iniziata a calare fin dall'estate del 2008, dopo il cessate il fuoco unilaterale proclamato dalla principale unità da combattimento dell'Ulfa: il 28° battaglione 'Kashmir' del comandante Mrinal Hazarika.

Ma è dal 2009, con l'arresto in Bangladesh di gran parte della dirigenza politica dei ribelli, che le attività militari dell'Ulfa sono praticamente cessate. Le ultime notizie di attacchi ribelli e scontri armati con i militari indiani risalgono all'estate scorsa.

A parte l'incognita sull'accettazione dei negoziati da parte di tutti i comandanti locali dell'Ulfa, bisogna ricordare che in Assam rimangono operativi diversi gruppi ribelli minori: in particolare il Fronte nazionale democratico del Bodoland (Ndfb), che ancora lo scorso novembre si è reso protagonista di violenze a sfondo etnico.

Il Fronte unito di liberazione dell'Assam ha iniziato a combattere nel 1979 per la creazione di uno Stato assamese separato dal governo federale indiano, accusato di sfruttare in maniera colonialistica le risorse naturali - soprattutto petrolio - della fertile valle del Brahmaputra, lasciando nella miseria e nel sottosviluppo le popolazioni locali, che in effetti non hanno mai tratto alcun beneficio dal boom economico indiano.

Da un punto di vista storico, i ribelli assamesi basano le loro rivendicazioni indipendentiste sull'esistenza del Regno di Assam (o di Ahom), fondato nel XIII secolo dopo Cristo e rimasto autonomo dall'India fino alla colonizzazione britannica nel 1826.

Fin dalla sua nascita, l'Ulfa - che originariamente si definiva una forza rivoluzionaria e socialista, contraria al sistema delle caste - è sostenuto, armato, addestrato e finanziato dai servizi segreti pachistani (Isi) e dalla loro emanazione bengalese (Dgfi) in funzione anti-indiana. Le basi dell'Ulfa si trovano in Bangladesh, Buthan e Myanmar.

Oltre agli attacchi contro le forze di sicurezza indiane e agli attentati contro stazioni, treni e strutture petrolifere, l'Ulfa si è contraddistinto anche per una sanguinosa campagna - che ha avuto il suo picco nel 2007 - contro i lavoratori immigrati indiani che, secondo l'Ulfa, il governo di Nuova Delhi manda in Assam come coloni.

A pagare il conto più salato di questa guerra sono stati comunque i civili assamesi, vittime di gravi abusi da parte delle forze armate indiane: arresti arbitrari, torture, stupri, esecuzioni extragiudiziali condotti in nome della 'lotta al terrorismo'.

venerdì 14 gennaio 2011

Haiti, un anno dopo

Dati tremendi a un anno dal sisma. E la comunità internazionale latita

E' passato un anno da quel terribile 12 gennaio, quando la terra haitiana ha tremato tanto forte da distruggere praticamente tutto quello che le stava costruito sopra. Insieme alla distruzione, il terremoto si è portato via centinaia di migliaia di vite umane.
Oltre 220mila sono i morti accertati. Almeno il 35 percento delle vittime aveva meno di 18 anni.
La situazione a 365 giorni da quei terribili minuti non è affatto migliorata. La comunità internazionale non è stata in grado di far partire la macchina della ricostruzione e tutt'oggi circa un milione di persone, fra loro almeno 400mila bambini, vive nelle tendopoli alla mercé di tutto.
A subire le conseguenze di una situazione tragica che non vede una luce di speranza sono i più piccoli.
Secondo le ultime stime, sono almeno 14 mila i minori che sarebbero costretti a lavorare. Più di 4 mila, anche se potrebbero essere molti di più, dormono per le strade delle città, soprattutto nella capitale Port au Prince.

Unicef lancia un altro allarme: molti bambini haitiani sarebbero oggetto di rapimenti per adozioni illegali all'estero. Un affaire redditizio per i trafficanti di uomini che il sisma ha soltanto potuto amplificare. Alcuni mesi fa al confine con la Repubblica Dominicana almeno 1.800 minori sono stati fermati dalle autorità e sottoposti a verifiche. Alcuni di loro erano stati sequestrati. Anche l'aeroporto non è immune da certe storie e sono molti i controlli sui bambini che passano da lì.
Nel frattempo, la ricostruzione promessa fatica ad essere avviata, il colera miete decine di vittime, la politica non dà sufficienti garanzie.
Nemmeno la tornata elettorale ha dato garanzie per una futura stabilità politica dell'isola. La notizia delle ultime ore, infatti, è alquanto clamorosa. Secondo quanto si legge dalle pagine del Washington Post "Un team internazionale di monitoraggio consiglia di escludere il candidato appoggiato dal governo di Haiti dal ballottaggio presidenziale in favore di un musicista popolare finito terzo vicino nei risultati ufficiali impugnati, secondo una copia della relazione ottenuta lunedì da The Associated Press. La relazione dal team dell'Organizzazione degli Stati Americani è stata presentato lunedì al presidente Rene Preval". Insomma, l'ennesima conferma che forze possano essere in grado di gestire, sovvertire e decidere le sorti di quello che da sempre è considerato uno dei paesi più poveri e sottosviluppati del pianeta. E che per l'incapacità e la malafede delle grandi potenze mondiali resterà in questa situazione per molto tempo ancora.

Storie di Pace...La vita di GINO STRADA


Salve Gente!!!!!!!!!!!

Dopo un lungo periodo di stop, siamo tornati.
ABBIAMO aggiornato la pagina "Storie di Pace" che dopo aver letto l'avvincente storia di Don Aniello Manganiello, diamo ora a tutti voi la possibilità di poter conoscere un altro grande uomo che fa valere ogni giorno il suo apporto per la Pace e la Non Violenza, curando le vittime di guerra di Iraq, Afghanistan e tutte le altre guerre dimenticate dai media.
Stiamo parlando di GINO STRADA

giovedì 13 gennaio 2011

Cuba, la Corte Suprema commuta anche l'ultima sentenza di morte

Si tratta di Humberto Eladio Real Suarez, 40enne cubano americano, arrestato nel 1994 con altri membri del Partito per l'Unità nazionale democratica, considerata da Cuba un'organizzazione terroristica
La Corte Suprema cubana ha commutato in una sentenza di 30 anni di carcere anche l'ultima condanna a morte ancora pendente nell'isola caraibica. I gruppi dissidenti cubani riferiscono che si tratta di Humberto Eladio Real Suarez, 40enne cubano americano, arrestato nel 1994 insieme ad altri membri del Partito per l'Unità nazionale democratica, considerata da Cuba un'organizzazione terroristica e da allora nel braccio della morte. Accusato di essersi infiltrato nel paese, Real Suarez era stato condannato alla pena capitale per aver agito contro la sicurezza dello stato e per aver ucciso un uomo con lo scopo di rubargli la macchina. Poche settimane fa erano state commutate altre due sentenze di morte che pendevano sulla testa di due salvadoregni accusati di terrorismo. Pur non essendo stata abolita dall'ordinamento giuridico, la pena capitale non viene applicata a Cuba dal 2003 quando sono stati messi a morte tre cubani accusati di aver dirottato una nave per poter fuggire negli Stati Uniti.

Sudan, sangue sulla frontiera

Oltre sessanta morti in attacchi e imboscate nelle regioni contese tra nord e sud che restano un'incognita preoccupante nei rapporti tra i due Paesi


Un passo avanti e uno indietro. Mentre il Sudan entra nel quarto giorno di un referendum decisivo che pure si sta svolgendo pacificamente, il sangue torna a scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese.

Negli ultimi sei giorni si sono registrate imboscate e scontri tra gruppi armati che hanno fatto oltre 60 morti: gli episodi si sono verificati nello stato di Unity, regione petrolifera considerata parte del nuovo Sud Sudan indipendente, nel Kordofan meridionale e ad Abiyei, aree invece sulle quali Khartoum e Juba non hanno ancora trovato un accordo e difficilmente riusciranno a intendersi in un futuro prossimo. Tra venerdì e sabato, quando fervevano gli ultimi preparativi per l'inizio delle operazioni di voto, è partito l'attacco dei miliziani agli ordini di Gatluak Gai, un ex comandante ribelle del Sudan People's Liberation Army (Spla), l'esercito indipendentista che adesso costituirà la colonna portante delle forze armate del Sud Sudan. A Juba sospettano che Gai e i suoi siano incoraggiati e finanziati da Khartoum con l'obiettivo di far deragliare il referendum. Secondo quanto riferito dal generale dell'Spla Gier Chuang Aluong, il ministro degli Interni del Sud Sudan, le milizie hanno attaccato una base dell'esercito regolare, uccidendo sei soldati. Nel contrattacco, i militari avrebbero ucciso oltre 30 miliziani, arrestandone 32, ai quali adesso verrà chiesto chi e perché ha deciso l'assalto e le imboscate.

L'area più calda resta quella di Abiyei, la regione a cavallo della frontiera che fino a pochi anni fa produceva da sola il 25 per cento della ricchezza petrolifera del Sudan. Qui si sarebbe dovuto tenere un referendum speciale per decidere se il territorio è parte del nord o del sud del Sudan. La delicatezza della situazione e l'importanza degli interessi in gioco ha spinto le due parti a rimandarlo a data da destinarsi ma le ferite restano aperte. Domenica hanno cominciato a circolare notizie di un attacco a poliziotti sudsudanesi con un bilancio di 20 morti: le voci sono state confermate dal colonnello Philip Aguer, un portavoce dell'esercito del Sud Sudan. Secondo la ricostruzione dell'ufficiale, ad attaccate sarebbero state truppe delle Forze di Difesa Popolare affiancate da milizie Messereya, una popolazione nomade araba che nella seconda guerra civile sudanese si era schierata con Khartoum. Le stesse milizie sono responsabili dell'attacco ad uno dei pulmini organizzati per riportare gli elettori emigrati nel nord a votare nei loro villaggi: il bilancio è di 10 morti e 18 feriti. Negli ultimi giorni si sono registrati una trentina di episodi analoghi: l'ultimo al confine tra Bahr el Gazel e il Kordofan meridionale, una regione contesa come Abiyei e divisa tra una popolazione cristiana, i Ngok Dinka, che vive prevalentemente di agricoltura, e i Messereya, pastori nomadi che si spingono a sud con il proprio gregge nei periodi di siccità: gli scontri, sempre frequenti, tra i due gruppi per il possesso della terra sono diventati politici, con Juba che si rifiuta di riconoscere loro la cittadinanza (e quindi il diritto di voto) e Khartoum che invece vuole farli votare, sapendo che si opporrebbero alla secessione del sud.

Che però ormai è un dato acquisito, anche perché l'affluenza ha superato il 60 per cento, la soglia al di sotto della quale sarebbe stato dichiarato nullo. Nel sud, non ci si chiede più "come va?" ma "hai votato ?", segno che la popolazione sente tutta l'importanza di un momento percepito come storico. Tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare. Migliaia di persone sono in arrivo anche da Uganda e Kenya, dove pure l'International Organization for Migration delle Nazioni Unite aveva predisposto seggi elettorali per la diaspora, che in parte non si è fidata dell'Onu, temendo che gli osservatori avrebbero potuto essere infiltrati da agenti sudanesi. L'indipendenza del sud è alle porte: i risultati definitivi verranno annunciati il 14 febbraio. Resta la questione della frontiera: una frontiera etnica ma anche religiosa, tra un nord musulmano e un sud cristiano animista, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponga alla secessione. A sud si festeggia già ma con un po' di amaro in bocca: mancano ancora alcune terre "irredente": Abiyei, il Kordofan meridionale e il Nilo Blu. Non lo faceva notare un pinco pallino qualsiasi ma Mabior de Garang, il figlio dell'eroe della lotta indipendentista del Sud Sudan, John Garang de Mabior, dando voce al sentimento di molti. La questione andrà affrontata e trovare una soluzione non sarà facile. Intanto, nelle terre contese il sangue è già tornato a scorrere.