Post di Pace...

mercoledì 23 giugno 2010

Dimissioni generale USA. Tra false promesse e morti innocenti la guerra continua e tutti sono daccordo.

E' di ieri martedi 22 giugno la notizia delle dimissioni di un generale dell'esercito statunitense che dopo le pesanti accuse rivolte al suo presidente Barack Obama, ha deciso di dimettersi. tra le accuse rivolte dal generale al presidente vi è il fatto che Obama nella campagna elettorale per la candidatura a Presidente degli Stati Uniti aveva promesso grandi riforme sociali e a favore della pace e la non violenza, incentivando anche il ritiriro delle truppe, nel giro di due anni, dall'Afghanistan e dall'Iraq.
Nel novembre 2008, Obama viene eletto dal suo popolo, cosi diventa il primo presidente nero della storia americana. Inizia bene e poi lentamente entra con carattere nelle dinamiche politich mondiali, continuando a promettere cose che stravolgeranno la politica americana e mondiale. Cosi sono passati quasi due anni dall'inizio del suo mandato è di quel utopico e bizzarro ritiro delle truppe dagli stati di guerra, che tanto aveva fatto parlare, non se ne vede ancora l'ombra. Un'utopia?!?!?!?!!? Questo non possiamo dirlo, resta il fatto che un generale dell'esercito ha avutole palle di confessare la verità che tutti nascondo; ha messo in luce quelli che sono i difetti di ogni politico, che promette grandi cose e grandi eventi e poi quando viene eletto non si ricorda più di quel ha detto prima delle elezioni. Così si stravolge di nuove la situazione guerra in Afghanistan e in Iraq, dove le truppe internazionali sono in guerra, mentre i politici ancora ci vengono a dire che i nostri militari sono in missione di pace. Come può durare una missione di pace 10 anni?!?!!?!?!?!??
ORA BASTA POLITICI, ANDATA A FANCULO, NON BEVIAMO PIU' LE VOSTRE STRONZATE. FATE TORNARE I NOSTRI MILITARI IN PATRIA E DIAMO LA POSSIBILITA' A TUTTI QUESTI PAESI DI FONDARSI UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA DA SOLI, SENZA LA FORZA DELLE ARMI. TORNO A RIPETERE:
LA PACE NON SI PORTA CON LE ARMI, MA CON IL DIALOGO A L'AMORE...

lunedì 14 giugno 2010

La guerra infinita al terrorismo

Dall’11 settembre al fallito attentato di Detroit, la storia in cinque atti di un conflitto sanguinoso. Che oggi ha nuovi scenari ma sempre le stesse vittime: le persone comuni.

Siamo ormai all’ottavo anno di un conflitto estenuante, più lungo della prima e della seconda guerra mondiale. Complesso, multidimensionale e polivalente come queste due guerre, è un conflitto a cui manca una narrazione. È caotico e difficile da definire. Ed è anche anonimo, cosa che non dovrebbe sorprenderci: poche guerre hanno avuto un nome mentre erano ancora in corso. Ma dopo l’ennesima settimana dominata dalle notizie di un nuovo allarme terrorismo – stavolta a causa di un giovane nigeriano, addestrato nello Yemen e legato ad Al-Qaeda, che ha cercato di far saltare in aria un aereo di linea statunitense – vale la pena di provare a fare un passo indietro per osservare lo svolgimento del conflitto nel suo complesso. Così potremmo provare a stabilire a che punto siamo e che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro.
La guerra al terrorismo si può dividere in cinque atti. Il primo è cominciato con l’11 settembre 2001, subito seguito dalla guerra in Afghanistan. Il secondo è coinciso con il momento di calma relativa tra il 2002 e il 2003. In questo periodo ci sono stati degli attentati e i combattimenti in Afghanistan sono proseguiti, ma gli scenari apocalittici che molti avevano temuto non si sono realizzati.
Poi, con l’attacco all’Iraq, è arrivato il terzo atto, con un netto intensificarsi del conflitto, rimasto fino a quel momento relativamente circoscritto sia nella portata degli scontri sia nell’estensione geografica. In quel momento è sembrato che i pessimisti avessero ragione. Un’ondata di radicalismo ha contagiato il mondo islamico e, mentre l’Iraq precipitava nel caos, gli attentati si moltiplicavano in tutto il Medio Oriente. La violenza ha toccato anche l’Europa, con gli attentati in Spagna e Gran Bretagna. Allo stesso tempo si sono aggregati le divisioni tra le diverse comunità religiose, e il linguaggio dei politici e dei mezzi d’informazione si è fatto più aggressivo.
Quando i giovani delle metropoli francesi si sono ribellati si è parlato di un’intifada europea, mentre dopo la pubblicazione di vignette satiriche su Maometto in un quotidiano danese, nei paesi musulmani migliaia di persone sono scese in piazza per protestare. Sono stati i giorni più bui di tutto il conflitto.
Nel quarto atto, invece, la situazione è migliorata: perfino nel caos più drammatico alcuni elementi hanno preso una piega positiva. L’atteggiamento dell’opinione pubblica islamica, per esempio, è cambiato. Milioni di musulmani hanno cominciato a condannare gli attentati. Questo non significa che avessero dimenticato l’indignazione nei confronti degli Stati Uniti, di Israele e dell’occidente o che avessero accettato la globalizzazione. Quei musulmani avevano semplicemente smesso di considerare le tattiche di Al-Qaeda come armi legittime.
Uno degli esempi di questa trasformazione è arrivato dalla Giordania: prima degli attentati dl novembre 2005 ad Amman, secondo i sondaggi, quasi due terzi dei giordani condividevano le azioni di Osama bin Laden. Dopo gli attacchi, la quota era scesa al 24 per cento. Nel 2005 in Turchia i sostenitori di Bin Laden erano il 3 per cento, contro il 15 per cento di tre anni prima. La stessa cosa è avvenuta in Marocco, in Arabia Saudita e in Egitto: finché la violenza era lontana, astratta, le tattiche di Bin Laden si potevano condividere. Ma quando le persone hanno cominciato a veder morire i loro soldati, i poliziotti e i vicini di casa, la situazione è cambiata.
Nel 2007 si è registrato un certo miglioramento anche in Iraq. Quell’anno il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha deciso di inviare nuove truppe, con un radicale cambiamento di strategia adottato proprio mentre erano in corso solo tre svolte cruciali. Innanzitutto, gli sciiti avevano conquistato con relativa facilità gran parte dello spazio, geografico e politico, che potevano sottrarre ai sunniti, e la guerra civile si stava esaurendo. In secondo luogo, i miliziani sciiti che avevano combattuto contro i sunniti e americani si erano fortemente indeboliti a causa di problemi di organizzazione e disciplina. Ma la svolta più significativa è stata la terza: le comunità sunnite si sono rivoltate contro i militanti affiliati ad Al-Qaeda.
Costrette a scegliere tra loro interessi e l’ideologia dell’organizzazione, le tribù hanno preferito i primi. In sostanza hanno rifiutato sia la libertà che gli americani cercavano di imporre con i carri armati sia la visione del mondo di Al-Qaeda, altrettanto estranea al contesto culturale locale. In Europa, una più rigorosa organizzazione dei servizi di sicurezza, una maggiore attenzione verso la complessità del problema, la crescente maturità del dibattito pubblico e la scelta del nuovo governo britannico, guidato fa Gordon Brown, di accantonare il linguaggio fortemente ideologizzato dell’era Blair hanno consolidato i progressi fatti.

L’ultimo atto

L’uscita dall’abisso in cui si era precipitati a metà decennio è stata lenta ma costante. E oggi, all’inizio del 2010, nel mondo musulmano il sostegno a Bin Laden non fa che diminuire, mentre in occidente la violenza, seppure ancora allarmante, non viene più percepita come una minaccia per l’esistenza della nostra società. Che succederà nel quinto atto? La prima risposta riguarda l’Afghanistan. Mentre l’attenzione si concentrava sui fronti secondari, i taliban hanno riconquistato vaste zone del paese. Con l’aumento delle truppe statunitensi, ci saranno nuovi combattimenti, ma il ritiro è previsto per il 2011. gli occidentali sono stanchi e vogliono, se non la pace, almeno un coinvolgimento meno impegnativo. Gli scontri dei prossimi mesi potrebbero essere l’ultimo sussulto del conflitto.
Oggi è possibile immaginare un futuro non troppo lontano in cui le notizie provenienti dai fronti della lotta al terrorismo non occuperanno più le prime pagine dei giornali ogni giorno. Sarà possibile, allora, dare un nome a questa guerra? In generale sono i vincitori a decidere come chiamare i conflitti. Ma in questo momento è difficile trovare chi possa rivendicare la vittoria. Al-Qaeda ha perso molti dei suoi leader e non ha ottenuto quasi nessuno dei suoi obiettivi. Il radicalismo islamico rimane un fenomeno disorganico, le masse musulmane non sono insorte, l’istituzione di un califfato non è imminente e l’occidente non sta è stato indebolito come Al-Qaeda sperava. Gli unici governi che sono stati rovesciati nel mondo islamico sono stati quelli deposti dalle potenze occidentali, e la crisi finanziaria ha fatto più danni all’economia globale dell’11 settembre e di tutti gli attentati dello scorso decennio. L’economia statunitense ha dimostrato grandi capacità di ripresa, e anche in Europa gli scenari più terribili non si sono avverati.
Tirando le somme, si può dire che le società e i sistemi politici occidentali supereranno quest’ondata di violenza radicale come hanno superato le precedenti. Del resto, neanche in Medio Oriente c’è stata la catastrofe pronostica da alcuni osservatori. Comunque è difficile sostenere che a vincere sia stato l’occidente. Le minacce rimangono, le cause profonde del terrorismo non sono state affrontate e i progressi ottenuti sono tutt’altro che solidi. Nel dicembre del 2004, dopo la rielezione di George W. Bush, la rivista ufficiale dei servizi segreti statunitensi prevedeva una duratura “prosecuzione del predominio americano”. Nel 2009 quegli stessi servizi hanno annunciato che gli Stati Uniti stanno perdendo potere in un mondo sempre più multipolare. Se questa è una vittoria, l’America non potrà permettersene altre.
Gli sconfitti di questa guerra non sono invece difficili da individuare. Si tratta tutte le persone che si sono trovate sotto il fuoco incrociato degli scontri: le vittime dell’11 settembre, di Londra e di Madrid, quelle delle violenze settarie di Baghdad, gli uomini e le donne uccisi in Afghanistan dai missili statunitensi e dai kamikaze. E poi le persone giustiziate da Al Zarqawi, quelle che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non sono gli sconfitti, però, a decidere che nome dare alle guerre. L’unica cosa che si può prevedere con una ragionevole certezza è che nessuno troverà presto un nome appropriato per questo conflitto in cinque atti ancora senza titolo.

lunedì 7 giugno 2010

No al bavaglio, non si può andare così...

Ci siamo, e quasi tutto pronto e nessuno dice niente, nessuno provàm per lo meno a ribellarsi e di fronte a questo scempio, vediamo il tacito consenso delle televisioni e dei giornali schiavi del sistema politico italiano. Non bastano le paroel di Milena Gabanelli, non basta la lettere di protesta di Adriano Celentano, oggi su "La Repubblica". La legge sulle intercettazioni, o meglio nota come "Legge bavaglio", sta per essere votata definitavamente al Senato. Ecco allora che un nuovo emendamento ad (Berluska) personam, sta per essere approvato. Un nuovo passo verso una situazione politica italiana schifosa. Nessuno dice niente, Santoro viene cacciato perchè considerato scomodo solo perchè racconta la verità, Vespa tagliato per i pochi ascolti, Gabanelli, Iacona e tutte le trasmissioni di denuncia ridotte all'osso. I politici con questo nuovo schifoso emendamento stanno uccidendo la libertà di stampa, che non avrà più il diritto di poter dare testimonianza della schifo che ogni giorno compioni i politici italiani.
Sempre di più si arriva ad una situazione infelice di regime per la nostr bella Italia, che ha perso il senso della democrazia, che ha perso la sua identità popolare, che si riaccende solo quando in tv ci sono le partite della nazionale di calcio.
E' una vergogna, non si può andare avanti cosi, dobbiamo continuare a credere che possiamo riconquistarci la democrazia, riprenderci il diritto di pensare liberamente. LA LIBERTA' E' SACRA COME IL PANE.

martedì 1 giugno 2010

Non servono più le parole

Un nuovo attacco alla pace è compiuto, e questa volta in acque internazionali ai danni della "Flotta per Gaza". Una flotta navale, nata con l'intento di portare la Pace nella striscia di Gaza attraverso un viaggio in nave che sarebbe dovuto concludersi tra pochi giorni. Il viaggio ora si concluderà, ma non come speravamo, o forse si, visto che la Pace nessun politico la vuole. La Flotta per la Pace era ed è, nonostante l'attacco subito dall'esercito israeliano nel quale hanno perso la vita 19 persone, un chiaro messaggio di pace e non violenza, nato per tentare di portare la pace nella striscia di Gaza, ormai da troppo tempo dilaniata dai violenti e sanguinosi scontri tra israeliani e palestinesi, una dura battaglia che non avrà mai fine, fino a quando i politici continueranno a gestire i loro sporchi affari di guerra.
Questo violento attacco è il risultato di tutte le tnesioni che ci sono in queste terre ed è un evidente dissenso contro la Pace, che resta utopia. Ora basta non servono più le parole, bisogna fare fatti e attivarsi alla risoluzione dei problemi nella striscia di Gaza.
Subito il mondo politico scossa da questo attentato, si è riunito, in qualità di ONU, in consiglio straordinario per cercare una situazione di emergenza per sedare gli animi. Il ministro degli esteri Frattini, esprime il suo cordoglio e spinge tutti alla ricerca del dialogo e della pace, che lui e sui mandanti non vogliono. Parole troppo comode, troppo scontate, inutili fino a quando l'Italia e l'ONU avranno le mani in pasta in tutte le guerre.
Bisogna lottare duramente contro i nostri politici cercando di fargli capire che per portare la Pace non servono le armi, ma il dialogo, l'amore e la volontà di riuscire a costruire un mondo nuovo dove non ci sia odio e violenza, discriminazione e razzia.
Non sono qui per fare la morale, posso sembrare scontato, ma almeno io provo a credere in una pace concreta che possa sedare i violenti animi di questo mondo pieno di odio, che Dio ci ha donato e che non riusciamo a mantenere puro e pacifico come lui lo ha immaginato. Questo mondo lo stiamo distruggendo con tutte queste inutile guerre. Dobbiamo ritrovare la serenità e la giusta via per portare la pace.